«Subito marciò contro di lui con tre legioni e dopo una gran battaglia presso Zela lo fece fuggire dal Ponto e distrusse totalmente il suo esercito. Nell’annunziare a Roma la straordinaria rapidità di questa spedizione, scrisse al suo amico Marzio tre sole parole: «Venni, vidi, vinsi».»

Venni, vidi, vinsi, le parole di Cesare indicano la celerità fulminea con cui sconfisse il nemico nella battaglia di Zela, velocità inversamente proporzionale a quella con cui stiamo sconfiggendo il Corona virus, altrimenti detto Covid 19.

La pandemia è una spaventosa rottura di scatole, su questo siamo d’accordo tutti, tranne i produttori di mascherine e le agenzie di pompe funebri. Io però da questo cataclisma sto imparando tante cose: non parlo di macro questioni, come la necessità di un impatto ambientale più sostenibile, perché dubito che la nostra specie, drogata di capitalismo selvaggio, sia in grado di invertire la rotta e di salvare il pianeta.

Da tempo d’altronde sostengo che “ci meritiamo l’estinzione”.

Restando però nell’ambito delle piccole-grandi questioni della vita quotidiana io qualcosa l’ho imparato. Un’allieva del mio corso per aspiranti comici è una signora russa, che ha trascorso l’infanzia in Unione Sovietica. Lei ci guarda e ride a crepapelle. Ricorda, che quando era bambina, le code per approvvigionarsi di un litro di latte, duravano dalle sei alle nove della mattina; a noi viene l’esaurimento nervoso per una coda di dieci minuti davanti al supermercato.
Dopo la fila, loro trovavano porzioni razionate di ogni cibo, noi facciamo la spesa in enormi supermercati traboccanti di ogni genere di leccornie. Ci disperiamo perché a scuola i nostri poveri bimbi sono costretti ad indossare la mascherina. A loro, a sette anni, insegnavano a montare un kalashnikov. E via di questo passo. Che infanzia di m…direte voi, e avete ragione. Ma io rido insieme alla signora russa: ci trovo grotteschi a noi piccoli capitalisti quando scleriamo perché non possiamo andare all’happy hour, diventiamo isterici se ci negano lo shopping, e soprattutto parliamo di dittatura se un’emergenza sanitaria ci costringe a casa per una ventina di giorni.
Dittatura? Chiedetelo alla mia allieva che cos’è la dittatura. Siamo davvero buffi se non fossimo irritanti nella nostra assurda impazienza e nel nostro inesistente spirito di sopportazione.

Sarebbe bello se imparassimo da queste quarantene forzate, a soffermarci su quello che abbiamo e non su quello che non possiamo fare e riuscissimo a cogliere gli aspetti a volte comici di una situazione drammatica. E se fossimo in grado di ricordare che prima o poi anche questa sventura, come tutto, passerà. Temo purtroppo che allora ci sarà qualcuno che rimpiangerà le strade senza traffico, il riposo forzato e la fortuna di non dover più sopportare il fiato da pony del vicino di casa in ascensore. E dirà la fatidica frase “Si stava meglio, quando si stava peggio”.